Almarina, la vita oltre le sbarre.

“Al tribunale dei minori mi ha tradotto il morbo dell’Umanità.”.

L’enunciazione stralciata dalla voce narrante del suo ultimo libro traduce, in un’intima e passionale professione dell’anima, la spinta irrefrenabile alle motivazioni per realizzare un romanzo di questa portata.

Almarina è l’ultimo libro scritto da Valeria Parrella, pubblicato da pochi mesi per i caratteri di Einaudi. La vicenda si svolge in un ambiente molto particolare, un carcere minorile, ubicato in un luogo denso di separazioni e lutti.

Stati d’animo lasciati ai propri destini che gareggiano in una disputa spuria e ruvida. Dove le relazioni umane sono ridotte a mestieri inevitabili e i soggetti reclusi, “prodotti” da trattare in modo asettico.

Il luogo geografico, Nisida, sede dell’istituto di detenzione per i minori, accresce il senso di emarginazione o una sorta di curiosità morbosa, rispetto all’arcipelago circostante ricco di bellezze ambientali, note e agognate in tutto il mondo.

Dalle prime pagine di una lettura intima e parzialmente criptica della protagonista, che si svela gradualmente come in una sorta di diario, riverbera nella memoria del lettore autoctono il refrain dei primi anni ottanta di un altro noto autore (cantautore musicista) partenopeo.

“Nisida è un’isola e nessuno lo sa!… Nisida è così vicina così lontana… Nisida sembra un’isola inventata ma mio padre mi assicura che c’è sempre stata!…Non è un problema ecologico per carità… Nisida è un classico esempio di stupidità!…”

Il reggae dissacrante di Edoardo Bennato segnalava già all’epoca contaminazioni ambientali evidenti rispetto a una tentata tutela paesaggistica che evidenziava fragilità e criticità grossolane.

Con ben altre visioni meno dissacranti quanto profonde e appropriate, l’esplorazione strutturale e antropologica della Parrella (che ha vissuto quel luogo attraverso una sua personale esperienza di formazione in un corso di scrittura creativa) prende forma e vita in Elisabetta Maiorana, donna napoletana coprotagonista nella vicenda.

Elisabetta è una professoressa di matematica che ogni giorno varca i controlli di sicurezza del carcere, consegna tutti i suoi effetti personali, compreso il telefono portatile, per onorare il suo impegno didattico con quegli allievi particolari dal profilo complesso. Elisabetta non ha figli.

Con il marito Antonio aveva tentato la via dell’affido di un figlio ma ostacoli di natura burocratica le avevano negato questo desiderio di dare compimento alla sua famiglia.

Che crolla improvvisamente quando un malore improvviso al consorte la rende vedova a sua insaputa poiché, isolata dal resto del mondo durante la sua lezione, è irreperibile nel momento del tragico decesso. Questo evento, descritto con toni reali e drammatici propri di una donna sensibile e generosa, costituisce lo spartiacque decisivo. Disegna un nuovo percorso affettivo con la costruzione graduale di un nuovo nucleo familiare. Diverso dagli stereotipi riconosciuti, non meno intenso e prodigo di legami vitali.

L’incontro con la giovane Almarina, sedicenne rumena reduce da un’infanzia negata in un girone infernale di violenze e abusi che nulla possano evocare i canoni di una famiglia, produce un rapporto graduale di vicinanza e condivisione.

Un processo inedito di scambio solidale che sarà il preludio a un nuovo progetto di vita insieme. Sullo sfondo l’ambiente di detenzione e sconto della pena fa da contraltare con una serie di elementi e prassi quotidiane. Azioni consolidate nei gesti meccanici dei comprimari. Gli agenti penitenziari, i compagni di classe di Almarina, reclusi anche loro, i colleghi docenti, il comandante di polizia penitenziaria che comunica con il suo sguardo comprensivo.

Cresce un rapporto affettivo fra l’insegnante e quest’allieva che diviene prediletta fra i colpi di sonno in aula e la curiosità di autori impegnativi come Gramsci.

Un percorso di comune resilienza fra le due donne avvolte da dolori diversi e rese più vicine da un comune linguaggio. Forte di codici cognitivi e spirituali, emersi giorno dopo giorno in una costruzione più libera e sincera.

Una vicenda racchiusa in una scena povera e limitata con pochi “testimoni oculari” che apre spiragli e orizzonti enormi sulla fascinazione complessa e vasta della metropoli circostante. Napoli e Nisida, abbandono e disagio minorile.  Violenza capillare nei vicoli. Blitz armati nelle piazze popolari dove altri minori balzano con un botto fulmineo dal gioco pomeridiano alla sala di rianimazione di un nosocomio infantile, lottando contro la morte che esplode repentina nel sangue con un rimbalzo sporco di un proiettile vagante.

Una denuncia sociale forte e chiara con un linguaggio potente e coinvolgente.

Che risponde a un quadro desolante con il sollievo chino della cura e del sorriso. Una metafora che non è fiabesca ma giunge come unico rimedio inclusivo per il futuro, ancor di più per questo presente del nostro Paese.

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