Mal di Mongolia. Il viaggio di due generazioni.

“Forse questo è il modo per assolvere i debiti con le terre che ci tengono legati: accettare di essere noi, l’Altrove.” 

La quarta di copertina del libro “La macchia mongolica” in libreria dallo scorso gennaio per i caratteri di Baldini + Castoldi (La Nave di Teseo) esprime l’essenza di un’esperienza umana forte che va oltre la sua narrazione declinata con più codici di comunicazione.

Il libro, scritto a quattro mani dal musicista narratore Massimo Zamboni con sua figlia Caterina, è un elemento importante di un progetto ampio che si completa con un album musicale realizzato dallo stesso Zamboni, pubblicato su cd da Universal Music e con un film documentario diretto dal regista Piergiorgio Casotti.  Il titolo del libro evoca il vulnus che schiude le porte di un ragionamento inedito per una cultura occidentale ancorata a costumi radicati e allarga spettri di visioni e indagini su scenari diversi e inesplorati. Nell’ambito sanitario “la macchia mongolica” rappresenta un piccolo angioma di colore bluastro simile a un livido che appare sul fondoschiena dei neonati per un periodo limitato di tempo. Questa peculiarità segnale un legame, un’origine con quella terra estrema dell’Asia dove la maggior parte dei nascituri presenta questa particolare cifra.

Questa circostanza si ripete con la nascita di Caterina Zamboni Russia nel 1998, due anni dopo il primo viaggio del papà con il suo gruppo musicale dei Csi proprio in Mongolia. In questi luoghi di spazi sterminati era nato uno dei dischi più amati, “Tabula rasa elettrificata”. Lo stesso viaggio aveva ispirato il desiderio di genitorialità per il musicista e la sua compagna Daniela.

Massimo Zamboni. Foto di Paolo Degan
in copertina del libro.

Il libro descrive con tratti poetici e antropologici il primo viaggio del 1996. Nel secondo realizzato, vent’anni dopo c’è la figlia Caterina.  Cambiano alcuni dettagli. Sono presenti nelle narrazioni alcuni aspetti, particolari apparentemente minimali (il mezzo che li porta nelle esplorazioni, un Uaz, fuoristrada sovietico), la fauna che anima gli spazi “densamente spopolati”, l’inviato italiano dell’agenzia viaggi innamorato della Mongolia, grazie alle musiche dello stesso Zamboni, ritrovato per caso.

Una serie di visioni, paesaggi e figure umane, che non rappresentano protagonisti decisivi di un nuovo continente. Bensì lo specchio per ritrovare le origini del proprio io in una sorta di catarsi generazionale. Luoghi scevri da monumenti o attrazioni esotiche, tipiche delle mete turistiche di una vacanza, lontano dai luoghi abituali della propria esistenza.

Caterina Zamboni Russia.
Foto di Luigi Lugli in copertina del libro.

Un viaggio che è la ricerca della propria identità. Un processo che sdogana lo stesso concetto d’identità, esula dalle radici consolidate dell’Emilia per collegarsi a geografie e umanità ignorate.

La lettura del libro non si esaurisce nell’ultima pagina. Probabilmente inizia proprio dall’epilogo per la scoperta delle altre espressioni collegate al progetto intimista e universale.

Buona lettura.

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