La famiglia, in tre generazioni del Novecento Napoletano, narrata da Maria Rosaria Selo.
“La lontananza da Napoli ha qualcosa di misterioso, ti fa sentire straniero in ogni altra terra, ti strugge, è una città che nasconde la bellezza nel dolore, c’è qualcosa in lei che non c’è in alcun luogo. Chi nasce a Napoli, a Napoli vuole morire.”.
E’ il venti agosto del 1957, quando Maria Imparato in un turbinio di pensieri è frustrata dall’ultimo schiaffo che la costringerà a separarsi dal ricordo più caro della sua infanzia (una spilla preziosa, unica eredità, dono di un’amica speciale) per assicurarsi biglietti per la traversata marittima sul transatlantico Currientes. Un ulteriore sovraprezzo non previsto per riparare in cabina con i pochi poveri effetti personali per affrontare insieme al consorte, Tonino, il lungo viaggio di venti giorni, che da Rio De Janeiro l’avrebbe riportata a casa.
Nella sua Napoli.
L’albero di mandarini, disponibile in tutte le librerie dallo scorso aprile, edito per i caratteri di Rizzoli, non è solo il primo romanzo di Maria Rosaria Selo. E molto di più.
Un romanzo di formazione che indaga e rivive le storie di una famiglia del popolo, in una città universale, Napoli.
Capace di circoscrivere pulsioni e fremiti più reconditi dell’intera Umanità.
La trama muove le vicende legate a un periodo storico di oltre quarant’anni con il martirio della città dilaniata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Sino ai giorni nostri recenti, diametralmente opposti.
Scenari popolari, terribilmente poveri quando non drammatici, quelli dei primi anni Quaranta.
Acuiti da una diffusa disaffezione all’istruzione scolastica e al mancato irrinunciabile ruolo della prima agenzia formativa: la famiglia.
Quella descritta dalla Selo, con linguaggio vissuto intimamente nei corpi e nelle anime dei protagonisti, evolve tra i vicoli di Cupa Caiafa.
La famiglia Imparato non affolla un basso ai piedi del Corso Vittorio Emanuele.
Vive in un’abitazione modesta, una sorta di casolare con un cortile adornato da un profumato albero di mandarini. Giovanni, il capofamiglia, è un tranviere.
Nunzia Capece, la moglie, si fa in quattro, anche in più parti, per quadrare i conti e tirare la campata con tre figli.
La sua indole rassegnata a una vita segnata da stenti e torti l’ha piegata in un percorso sterrato.
Dove la mimetica da indossare per guadagnare spazi e companatico è uguale in ogni giorno della settimana. Un percorso determinato, da imporre ai figli, senza possibilità di scelta per altre vie.
Legittime aspirazioni di un’infanzia blindata (o negata) per ambire a una vita diversa non sono contemplate nell’immaginario dei coniugi Imparato.
Affrancarsi dal modello ieratico accartocciato nel plebeo perbenismo della “sberressa” Nunzia, sarà il fine dichiarato e attuato, sin dalla sua tenera età della primogenita Maria.
Incline a scoprire orizzonti diversi rispetto al perimetro misero del quartiere.
Soprattutto determinata a superare uno stato sociale già tracciato dal solco materno, privo di studi e lavoro (già una chimera per i maschi alle porte del conflitto mondiale), presupposti non negoziabili per l’aspirazione a una sua futura e diversa famiglia.
Meglio se costruita con un amore scelto, piuttosto che cercato o deciso da terzi.
Attese e progetti che nei cocenti traumi illusori (soprattutto nei primi amori, rivelatisi dolori), elaboravano senso e consapevolezza nel rifugio di un padre verde e profumato dalle tante braccia accoglienti e forti, piantato fuori casa.
Un cantuccio biologico di carezze protettive percepite nel brusio delle foglie ammantate di mandarini. Affidati ai rami più antichi e robusti.
Forti a sostenere il peso stanco e affranto di Maria. Pronta a rifocillarsi e recuperare l’intima energia della clorofilla. Più efficace delle medicine assunte per debellare la terribile polmonite che l’aveva colpita in tenera età.
L’albero di mandarini dirama tante visioni di umana debolezza e straordinaria resilienza.
Le tinte, gli umori, i linguaggi sono forti e variopinti. Eleganti e austeri, duri e violenti.
Le trame del romanzo assegnano il banco alle donne. Che nel bene e nel male fanno la differenza rispetto agli uomini, comprimari sulla scena.
Meno autorevoli nell’assunzione di scelte responsabili. Dotati di una dignità, talvolta sopita da stringenti equilibri convenzionali.
Tradotti nell’esemplare adagio autoctono di “mantenè ‘o carro p’ ’a scesa…”.
Fine stratagemma diffuso nell’arte del compromesso popolare.
Il lettore, preso dallo scorrere le pagine senza sosta, sembra trovarsi di fronte un pavone che apre la sua ruota di ammalianti colori.
Madri che sopravanzano le personali aspettative rispetto ai sogni dei figli.
Una tirannide genitoriale responsabile di scelte imposte senza scrupolo alcuno per le ali tarpate ai propri sudditi consanguinei. Mutilati nella crescita della personalità da azioni non dissimili di un carnefice.
E’ il caso di Severina, “zingara sagliuta” in un agio benestante casuale e stabile.
Facilitata dall’accondiscendente consorte a mortificare la vita dei tre figli. Sino a rimuoverne l’esistenza della secondogenita, allontanandola dal proprio alveo familiare, parchè non riconosciuta adeguata al suo legame di sangue.
La renitenza di Severina, avversata in tutti i modi possibili nei confronti della nuora Maria, supera con sprezzo abissale il rapporto tossico, adulterato da una sottile gelosia, fra la stessa sposina Maria e sua madre Nunzia.
Incapace di rispettare l’autonomia della sua primogenita rispetto alle più accomodanti posizioni di Elena, figlia intermedia, (c’è anche il piccolo Gigino), scaltra nell’affrontare il quotidiano, senza complicarsi troppo la vita. Da affrontare sempre con pronto opportunismo.
Un libro pregno di vita vissuta. Sangue e carne viva con un coinvolgimento forte che rapisce il lettore che segue l’autrice.
Capace di realizzare un capolavoro da una storia vera dell’intima sfera personale.
Le dediche che precedono l’incipit sono un preavviso evidente.
Al netto delle classificazioni editoriali, L’albero di mandarini, rende appropriato omaggio a un patrimonio storico antropologico non solo riconducibile alla nobile e alta scuola letteraria napoletana.
Il tema dell’emigrazione non è marginale. Nelle dettagliate sequenze narrative della scrittrice, riecheggiano immediate nell’immaginario collettivo le note di “Santa Lucia luntana”, scritta da E. A. Mario nel 1919.
Come le puntuali descrizioni dei ricoveri sotterranei popolati da ratti e altri lugubri profili, durante i bombardamenti, rievocano cronache contigue all’inimitabile Ventre di Napoli della Serao.
Un respiro letterario intriso dalla vicinanza agli autori caposcuola del Novecento Italiano:
Annamaria Ortese aleggia nelle atmosfere crude.
Casuale e intonato un richiamo a Raffaele La Capria.
Presente nel passaggio dolente dell’amato mandarino con un’appropriata citazione del suo più noto romanzo, vincitore del Premio Strega nel 1961.
La citazione di Edoardo che apre il libro è un presagio d’amore.
Il sentimento più forte e nitido che profuma, come l’albero della Selo, ogni pagina di questo libro.