Bere pagine di carta, dissetandosi come a una fonte sorgiva, dopo una lunghissima marcia in uno sterrato impervio di una torrida estate.
Potrei chiudere in questa personale metafora la piacevole visione con un retrogusto fresco e agrodolce. Che permane alla conclusione della prima lettura di un libro speciale.
Frumento e papaveri è l’ultimo lavoro editoriale realizzato da Antonia Storace, giovane giornalista, scrittrice napoletana.
Distribuito in libreria dalla scorsa primavera per i tipi di Viola editore, il libro è un luogo di Vita.
Vissuta dalla stessa autrice. Impressa nelle pagine bianche con una metrica melodiosa di un metronomo soave.
Un podcast scritto con la voce silente e urlante dell’anima.
Il libro è un’opera unica, non riconducibile ad alcun genere narrativo. Un coro intonato di ossimori e discrasie sincopate. Un diario aperto che ha un senso puntuale nel suo non senso apparente.
Se fino a questo punto sì è creato sconcerto, o peggio, nulla di realmente comprensibile, il motivo risiede nella natura tumultuosa della voce narrante.
L’animo umano non si legge, non si scrive: si vive. Storace riesce a superare questo limite imprimendo nel coinvolgimento del lettore un linguaggio di fuoco e passione.
Furore e dolore connotano i passaggi più comuni del vissuto indicibile.
Il viaggio al centro di una terra fertile, avviene nel corpo, fisico e spirituale, di una protagonista.
Nondimeno Frumento e papaveri non si percepisce come un lavoro di genere, né dedicato in via prioritaria alle donne.
Non solo per l’intonata prefazione di Pino Ammendola.
Il percorso con Antonia Storace conduce, quasi mano nella mano, il lettore che diviene compagno, amico comune. Un viaggio ristorato con alcuni mantra o didascalie – se può passare il termine – che alleviano il respiro e la fatica, mai dissimulata, di scoprirsi nudi.
Le ultime tre coincidenze con questa lettura sono casuali e non trascurabili.
Convengono in una rinnovata serendipità che può superare tensioni ricorrenti.
Dalla prima è, fortuna sua, esclusa la stessa scrittrice che, come ci informa la quarta di copertina, nasce a Napoli nel 1986.
Sei anni dopo quel 23 novembre del 1980, un giorno indelebile nella memoria, per chi lo abbia vissuto come lo scrivente. Gustare il frumento di Antonia nel quarantunesimo anniversario di quel fragore devastante di dolore, è un sollievo nostalgico.
Un rimedio già trattato nelle stesse trame intessute dall’autrice. Che carezza cicatrici non rimarginate.
Divorare la prima lettura con onnivoro ardore a ridosso del 25 novembre, giornata internazionale per la soppressione della violenza contro le donne, può apparire come l’ennesimo atto manicheo.
Eroso come una falce dalla prosa incalzante della Storace, insieme a tanti altri che completano i nostri abiti benpensanti da “persone per bene”.
Infine, non da ultimo, giungere alle pagine dei ringraziamenti con il simbolico desiderio di aggiungerne uno nuovo. Postumo ispiratore – l’autotrasportatore marchigiano capace di scegliere di sospendere le sue irresistibili sofferenze, figlie di un irreversibile dolore – per un presagio d’incomprensibile, umano amore per la Vita.
Buona lettura.