“La genovese era stata a pippiare per cinque ore sul fuoco a fiamma bassissima: il chilo di cipolle si era sfaldato, s’era mescolato al muscoletto di vitello ed era diventato una purea che aveva la stessa consistenza della marmellata dei fichi d’India”.
Il passo narrante dal sapore invitante, non solo per la prelibata pietanza in cottura, rimanda ad una tipica visione Edoardiana.
Intonata ad un tradizionale focolare domestico partenopeo in una età sospesa, consona al crepuscolo del Novecento.
La vicenda muove intorno al protagonista che ispira il titolo al romanzo.
Uvaspina è il primo romanzo scritto da Monica Acito, edito per i caratteri di Bompiani, nel febbraio 2023.
Il giovanissimo Carmine Riccio, noto Uvaspina, per la sua particolare “voglia”, minuscolo angioma simile a un chicco d’uva, sotto l’occhio sinistro.
Il soprannome non è casuale, considerata l’attitudine del ragazzo ad essere “spremuto”, per usare un eufemismo, fisicamente e non solo, dalle persone a lui più care.
In primis nell’ambito familiare. Una famiglia apparentemente “sistemata”, in un gergo culturale, nonostante tutto, purtroppo, mai prossimo al tramonto.
I genitori: Graziella, quasi sempre citata come la Spaiata
– mirabile sintesi antropologica – e Pasquale Riccio.
Una coppia male assortita dalle opposte estrazioni sociali. Accomunati da una smodata, volatile ricerca del benessere.
La prima, una ciantrella intraprendente senza arte ne parte, se non quella coltivata nel brodo di coltura del pezzotto forcellaro.
Formatasi alla scuola a cielo aperto del chiagni e fotti.
Un vera e propria “scuola d’arte” specializzatasi in un tirocinio performante sulla claque del pianto nelle case del caro estinto.
In una prestazione a chiamata, un lutto di peso in una famiglia benestante del quartiere Chiaia, il pianto di Graziella ammalia il rampollo sfaccendato, orfano del notaio Riccio.
Pasquale, notaio per caso nel solco paterno, mostra una grande propensione solo per la bella vita e i piaceri della carne. Meglio se assecondati negli istinti più triviali. Dominati e soddisfatti con la potenza del denaro.
Una manna da bingo per il fiuto della cagna Spaiata.
Inevitabilmente sposa, improbabile moglie altolocata , “zingara sagliuta”, madre due volte di altrettanti figli diversi.
Minuccia, secondogenita, sorella di Carmine, sembrava la gemella del fratello, maggiore di circa due anni.
Entrambi crescevano in un sodalizio forte e carnale: un’alleanza di due evidenti fragilità.
Uvaspina nelle sembianze del criaturiello effeminato, gradualmente emarginato, poi bullizzato dalla virilità dei compagni di scuola, dall’ostentato rigetto paterno. Indisponibile nell’accettare un figlio diverso.
Minuccia, preponderante donna di casa, nel gestire e dominare con tutti i mezzi in suo possesso, gli psicodrammi della Spaiata. Pronta a spirare, almeno una volta a settimana, in coincidenza delle sempre più disastrose fughe del coniuge. Avvinto nella fallimentare presidenza del circolo nautico di Posillipo. Elitario ritrovo di facoltosi professionisti. Dediti prevalentemente a cene e dispendiosi festini.
L’avanzata adolescenziale dei due figli amplifica complicità torbide, talvolta incestuose. Uvaspina e Minuccia sono inconsapevolmente costretti a conoscere le pulsioni dei loro corpi con la sottomissione dell’uno rispetto al disturbo dell’altra.
Incapace di contenere le furie violente – sprigionate nella cruda metafora dello strummolo – all’occorrenza di eventi, emotivamente inediti.
Un convitato di pietra aleggia nello splendido affresco di Monica Acito: l’amore.
Cercato nelle forme più diverse e oscure dei protagonisti.
Celati nei profili di personaggi veri, senza tempo, contemporanei in ogni epoca.
Collocati in una ambientazione ancora più vera e cruda, solo apparentemente incastonata nelle visioni oleografiche di una Napoli patinata o turistica.
Il lettore potrà scoprire personaggi emergenti da note visitazioni letterarie care alla Serao o alla Ortese, come allo stesso Domenico Rea.
Antonio, solo per ricordarne uno nella schiera centrale della vicenda, racchiude la summa di personalità complesse.
Dove “cazzimma e sentimento” convergono su strade parallele governate dallo status quo.
Il giovane pescatore dal colore degli occhi policromatico, emerso dalle acque di Posillipo quasi come una sirena salvifica agli occhi smarriti di Uvaspina; catalizza attenzioni e sentimenti contrastanti.
L’affrancarsi dalle origini poverissime della sua famiglia grazie ai libri fruiti dal sacrificio del lavoro materno; all’intelligenza scaltra nel mutare – con l’abilità del baro al banchetto delle tre carte – ruoli sentimentali inconciliabili; delinea uno scenario distonico.
Dove ultimi e comprimari s’incontrano in contaminazioni umane prive di enfasi.
“E la cultura del figlio le costava nuove vene di dolore nelle gambe: l’Acquaiola era fatta di acqua fresca e sangue sempre nuovo, come quello che si scioglieva al Duomo di Napoli, perché nelle gambe dell’Acquaiola c’erano le ferite di tutta Napoli, città mestruata di sangue.”
L’ enfasi che coinvolgerà il lettore è il linguaggio adottato dalla giovane autrice.
Una scrittura piena che accompagna visioni e sensazioni alle parole.
Quasi sempre espressioni dirette dei pensieri di coloro che le producono.
Una rottura di schemi nelle relazioni umane con una conduzione di energia o sangue senza guaina protettiva.
Una sfida rasente talvolta un corto circuito. Sciogliendo lo spago allo “strummolo” che soggiace in ogni essere umano.
Le note conclusive svelano la forza del convitato di pietra che regola il migliore respiro, anche sofferto, alla nostra madre terra. Perché:
“Napoli non conosce tempo, perché tutto ha una durata millenaria e istantanea: quando respiro Napoli, respiro il sangue dei secoli e anche il sangue di domani.”