“E le librerie indipendenti come lei sa, sono realtà fondamentali, avamposti culturali irrinunciabili, un bene comune.”
Un passo vero, che non svela alcun tratto saliente, in una trama a dir poco immaginifica, conferma l’aderenza contemporanea in uno degli ultimi titoli in uscita.
Nella migliore narrativa italiana e internazionale.
Cuore nero, l’ultimo romanzo scritto da Silvia Avallone, edito da Rizzoli è in libreria dallo scorso ventitre gennaio.
Quattro anni dopo la pubblicazione di Un’ Amicizia (https://www.laltraribalta.it/2020/12/28/lamicizia-lunico-sentimento-che-resta-immutato-nel-tempo/), la scrittrice classe 1984, nata a Biella, bolognese d’adozione, ci accompagna per mano in un percorso ignoto ai più.
Attraversato, incastonato in dirupi sterrati, disseminati a pochi passi dalle nostre vie convenzionali del quotidiano.
I protagonisti sono due giovani adulti, entrambi poco più che trentenni.
Emilia Innocenti e Bruno Peraldo si ritrovano in un lunedì di novembre, il due, nella ricorrenza che la Chiesa dedica ai defunti.
Impossibile ignorarsi a Sassaia (località indefinita, denominata con un nome di fantasia dall’autrice) borgo appennino, arroccato fra pendii e dirupi boschivi, con rare case sparse e due abitanti, uno dei quali è Bruno.
L’impervio luogo è raggiungibile a piedi, partendo da Alma, minuscolo centro abitato del territorio, seguendo il sentiero chiamato Strà dal Forche.
L’arrivo di Emilia, accompagnata dal padre Riccardo, presso la dimora di famiglia è descritto con una eloquenza che spegne il respiro, già in evidente affanno:
“E il nido di case decrepite del suo sogno ricorrente si materializzò di colpo. Costruzioni in pietra con tetti di ardesia che si tenevano in piedi aggrappandosi l’una all’altra.”
Una sorta di percorso vita, presagio ad una esistenza solitaria,
Accompagnata dagli esclusivi mutamenti climatici delle stagioni e dal dominio assoluto della Natura con i suoi ospiti viventi, non umani.
Sassaia richiama senza dubbio un rifugio fuori dal mondo, un nascondiglio ideale per praticare un distanziamento sociale. La scelta volontaria di un isolamento relazionale per scontare una pena.
Comminata per un dolore senza rimedio o alcuna revoca plausibile.
I due abitanti di Sassaia– il terzo, Basilio, esparto artigiano, risulterà, al pari di tutti i comprimari, una figura iconica nell’esplorazione dell’umanità, ripresa con uno sguardo rispettoso dall’autrice – non tarderanno a ritrovarsi, loro malgrado, da perfetti sconosciuti a perduti amanti.
Un’attrazione, se non fatale, quasi inevitabile per la comune stigma genetica del dolore.
Inferto nei rispettivi corpi, nelle loro anime come stimmate irreversibili.
Emilia il dolore lo ha prodotto. Lo ha partorito come soggetto attivo e crudele nella sua adolescenza.
Bruno il dolore lo ha subito. Con una modalità cruenta, traumatica in un evento originariamente gioioso della sua infanzia con la sua famiglia di origine.
In pochi attimi distrutta per una tragica sciagura occorsa in una spensierata gita sulle nevi alpine.
Da questa condizione apparentemente anonima con una serie di legami riferiti a un passato (zavorrato da macigni) dai comuni giri parentali del luogo, si schiudono gradualmente passaggi luminosi negli anni bui e lontani.
Non abbastanza lontani per conferire la consapevolezza di una personalità compiuta in Bruno. Nel frattempo impegnato come abile maestro in una sparuta classe elementare nell’unica scuola di Alma.
Funzionante con un corpo docenti ridotto a una solitaria e male assortita coppia di insegnanti.
Di gran lunga pessima e oscura la reputazione di Emilia: la “foresta” dalla chioma rossa con i jeans strappati, giunta dal ravennate. Oggetto di pruriginosa curiosità quando avvistata in pose sconce, abbrutite dall’ebbrezza dell’alcol. Consumato nell’unico bar del paese, ritrovo della “massa critica” benpensante del microcosmo montano.
Nella metafora idiosincratica che monta intorno alla figura ambigua di Emilia, paradossale anche nel cognome, la voce narrante maschile è affidata a Bruno.
Una scelta inedita nella prosa di Avallone: una visione di genere che annota, scrive tutto e scandaglia i meandri del male.
Scoprendo in una crudele via Crucis la colpa inammissibile della ragazza ravennate.
Scontata con alcune coetanee di diversa estrazione ed etnia nel carcere minorile di Bologna.
L’emersione delle diverse sofferenze causate da delitti o da eventi colposi, si delinea con una scrittura cruda ed elevata che non lascia margini di giustificazione o pietismo.
Un quadro di tinte forti che non cavalcano moralismi ne avanzano attenuanti per nessuna delle parti in causa.
Che non si consumano nella spasmodica ricerca di un carnefice rispetto a una o più vittime.
Ne scaturisce un fiume di umanità. Contaminata dallo scorrere del tempo.
Scandito indelebilmente con i cardini non negoziabili nella visione umana che scolpisce la letteratura di Silvia Avallone.
L’irrinunciabile presenza, talvolta fragile, della famiglia, di alcuni superstiti o componenti riferibili comunque al rapporto consaguineo.
Il ruolo insostituibile della scuola, declinato nelle forme più ampie e dislocate del termine. I contributi vitali di alcuni educatori, seppure anonimi o apparentemente mediocri o inaccessibili a qualsiasi tentativo d’interazione.
Capaci, contro ogni pronostico, di ribaltare le coscienze e offrire una possibilità diversa di riscatto e redenzione
Al netto dei giudizi di merito, il Cuore nero, che sicuramente valicherà i confini provinciali nazionali, migliorerà la coscienza del lettore medio.
Che potrà forse riconoscersi e, nel caso, prendere le distanze dagli stereotipi diffusi dei pochi avventori del bar Samurai di Alma.
L’ennesima opera omnia di Silvia Avallone, seppure non si configuri come un romanzo storico, assume i toni di un vero capolavoro nella narrativa ffp2.
Dove l’alveo contemporaneo, segnato dallo spartiacque post pandemico, risalta nella straordinaria esperienza umana, mirabilmente condivisa dalla stessa scrittrice nei ringraziamenti finali.
Buona lettura.