“Non ci sono mafie migliori e mafie peggiori. Fanno tutte schifo. Ci sono però donne che fanno la differenza.”.
Non è una semplice chiosa, neppure un auspicio per il futuro, la chiave di lettura e il vulnus decisivo carpito da Dina Lauricella.
La giornalista d’inchiesta palermitana, inviata per diverse testate nazionali, consegna nel suo ultimo saggio “Il codice del disonore”, edito da poche settimane per i caratteri di Einaudi, un quadro inquietante quanto scrupoloso sulla vita (un eufemismo) intima vissuta all’interno di un campione indagato di famiglie (altro eufemismo) calabresi, organiche alla più potente e temuta associazione mafiosa della ‘Ndrangheta.
La ricerca avviata dall’autrice, supportata con la collaborazione degli organi inquirenti, ha origine con la richiesta di un’intervista pervenutale da una donna, moglie di un affiliato a una ndrina, inserita nel programma di protezione per i collaboratori di giustizia.
La sequenza di vicende che si susseguono coinvolge una serie di esperienze analoghe riferite a giovani madri accomunate dal comune desiderio di affrancarsi da prostrazioni indicibili e disumane. Sono le storie di “Donne che fanno tremare la ‘Ndrangheta” così come indica il sottotitolo.
Le immagini riprodotte con una prosa asettica e cruda, scevra da alcun coinvolgimento emotivo, appaiono quasi con occhio voyeuristico spiato da un ipotetico buco di una serratura blindata. Dove la ferrea tenuta familista in uno schema arcaico e primitivo poggiato su un crinale “bestiale”, è compromessa da due mine vaganti per lo stigma criminale. La prima è istituzionale (il programma di protezione previsto dagli organi di polizia giudiziaria), la seconda più subdola e aleatoria è offerta dalla tecnologia digitale, racchiusa nello smartphone. Unico strumento di relazione e contatti virtuali con un mondo esterno diverso, più prossimo a un anelito di sentimento umano, campione di una relazione equilibrata e affettiva. Seppure inesplorata e filtrata nelle modalità poco protette dei social network.
In un ambiente arcaico dove il codice barbaricino dell’onore familiare, asservito agli interessi primari degli affari economici e illegali della cosca (traffico di stupefacenti e droga, gli asset principali) e della ndrina, prevede, secondo i fedeli e inviolabili riti d’iniziazione, l’eliminazione fisica dei congiunti di sangue e la riduzione in stato di schiavitù per la moglie e madre dei figli che manifesti alcun comportamento non coerente alla legge del capo clan.
L’indagine di Lauricella svela uno scenario ignorato e abiurato dalla cosiddetta società civile, trascurato dalla sacralità formale delle istituzioni e da una classe politica di trasversale colore. Che sin dalla nascita della Repubblica ha scientemente coperto con una coltre di finzione e ipocrisia, non seconda all’omertà imperante dei territori natii, un brodo sanguinario di coltura che non produce sdegno e ribellione in un’opinione pubblica fragile e volatile.
Addomesticata a canoni pleonastici, permeati da innato o inconsapevole razzismo nel riscontro di condizioni inumane vissute da culture lontane che investano le donne afgane piuttosto che quelle iraniane brutalizzate nella repressione o i bambini soldati dell’estremo Oriente.
Senza porsi doverosi interrogativi sui nostri nascituri della piana di Gioia Tauro che continuano a ricevere un revolver come regalo di Battesimo, cifra del loro futuro predestinato.
Nello scenario emergente l’assenza ingombrante della politica assume proporzioni non definibili che rimandano a una Questione meridionale, mai affrontata con azioni serie sin dalle origini dell’Unità d’Italia. Dove azioni repressive e strumenti normativi troppo spesso collusivi (finanziamenti senza remore della fu CASMEZ) non hanno ancora realizzato quella conversione culturale e antropologica invocata su piani e ragionamenti meramente accademici.
Nel testo, corredato da una ricca appendice di note e documenti di atti giudiziari, emergono ricorrenti comportamenti opachi. Cristallizzati in più settori della sociètà italiana, compresa un’informazione giornalistica non sempre preparata e adeguata a fronteggiare uno stato di salute democratica infestato di metastasi.
La lettura di queste pagine rigetta senza appello anche gli ultimi proclami propagandistici che intendano favorire “prima gli italiani” o salvaguardare prioritariamente i “diritti inviolabili della persona”.
Nonostante un quadro per nulla incoraggiante, scevro da connotati di finzione che possano trasferirsi agevolmente su sceneggiature per il grande schermo cinematografico (una tendenza piuttosto ricorrente nel brand narrativo delle criminalità nazionali), il lavoro chirurgico sul territorio dell’autrice apre a nuove possibilità inedite d’incursioni e falle importanti nel muro sanguinario e omertoso del sistema criminale.
Oltre le donne, i magistrati e gli uomini delle istituzioni, serviranno volontà politiche d’investimenti non solo in termini di risorse economiche per mezzi e militari impiegati (basterebbero due conti banali per contabilizzare ricadute positive di sviluppo con l’emersione del fatturato in nero), quanto una diffusione di presidi di cultura e formazione. Librerie e non solo per aggregare deserti di luoghi spopolati e arretrati che non insistono esclusivamente in Calabria e nel Mezzogiorno d’Italia. E’ questa la nota più grave e dolente affinché ancora oggi, dopo oltre quarant’anni non si riesca a smentire il grido Edoardiano del “fuitevenne”, rivolto ai suoi giovani partenopei dell’epoca. Seppure contestualizzato in un perimetro più ristretto e artistico, rispetto a una generalizzata fuga da questo nostro Paese. Opzione resa sempre più attuale e inevitabile per tanti cittadini privati dagli articoli fondanti della nostra Carta Costituzionale.