Sette opere di misericordia, in uscita con Neri Pozza, il secondo romanzo della scrittrice partenopea.
“Quello che non perdonava dell’attuale figura di sua moglie era ciò che sottostava. Un mutamento assai più profondo nell’anima: un incupimento che le appilava le vene peggio del grasso che vedeva galleggiare nei sughi che murmuliavano nelle pignatte sui fornelli.”
La voce narrante, riferita a Luisa, coprotagonista speciale, risale con una rinnovata prosa alla penna preziosa di Piera Ventre. Il suo secondo romanzo, Sette opere di misericordia (edito da Neri Pozza) disponibile in versione e book, è prenotabile anche in brossura per l’imminente, attesa riapertura delle librerie.
A quattro anni dal suo esordio da romanziera con Palazzo Kimbo (http://www.networknews24.it/2017/05/22/ventre-napoli-nelle-mura-palazzokimbo/), la scrittrice napoletana, prende il largo rispetto a un’esplorazione più introspettiva dai tratti accentuati dalla propria infanzia, cadenzata con una narrazione in prima persona.
Per approdare a un’opera omnia, un romanzo corale dove il chiaro di luna piena sulla tavola nera, di un mare calmo, irradia riflessi brillanti e concentrici.
Puntando dalla ripresa alta, una schiera di volti proietta storie accomunate dal medesimo destino. Riservato al girone povero degli emarginati. Coloro rimasti, inevitabilmente, molti passi indietro nelle file più accidentate del percorso terreno.
Dense di fragilità e passioni, espresse più chiaramente in riconosciute fasce sociali, minori e anziani.
Il titolo, Sette opere di misericordia, s’ispira al dipinto del pittore italiano Michelangelo Merisi da Caravaggio, realizzato nei primi anni del 1600, custodito presso il Pio Monte della Misericordia di Napoli, rappresentazione delle “sette opere di Misericordia corporali”.
Il romanzo muove i suoi passi con un fluire costante di sguardi su queste figure. Secondarie e marginali in un’ambientazione popolare della Napoli dei primi anni ottanta.
Tentativo catartico nell’abbrivo da una straordinaria tragedia epocale consumatasi nel terremoto del 23 novembre 1980.
L’infanzia si conferma il paesaggio privilegiato, amato e indagato dalla scrittrice napoletana, toscana d’adozione con i suoi oltre trent’anni trascorsi a Livorno.
Se lo sguardo di Stella (l’adolescente protagonista in Palazzo Kimbo) conserva un occhio marginale limitato alle cose che la circondano, quello del piccolo Nicola Imparato, punta in alto nel cielo stellato notturno. Che ammanta di luce la luna.
Seducente, inesplorata, da scoprire. Per annotarne sensazioni recondite sul suo “quadernuccio”. Con il telescopio donatogli dal papà Cristoforo, suo puntuale narratore di quella prima straordinaria escursione spaziale del 1969, affida a quel pianeta lontano e lucente, le sue aspettative di un mondo diverso con prospettive inedite.
Nella famiglia Imparato, quartetto d’archi in un’orchestra dalle sinfonie non armoniche, c’è Luisa moglie assennata, madre essenziale. La primogenita Rita è una liceale alle prese con molte domande sulla vita. Rare le risposte, mutuate in una bulimica ricerca di cibo, rubricata nell’uso di un vestiario extra large.
L’incipit della trama apre proprio sul piccolo Nicola, ritratto sulla prima di copertina del libro con una struggente immagine realizzata dal fotografo napoletano Mimmo Iodice.
Questa rappresenta una profonda assonanza fra il piccolo Imparato e il suo coetaneo Alfredino Rampi, oggetto del suo compito in classe per il primo importante esame scolastico, al termine della quinta elementare.
La narrazione si consuma nei giorni roventi (giugno 1981), che tennero l’Italia e gran parte del mondo con il fiato sospeso per il tragico incidente di Vermicino. Una cornice che racchiude i contenuti del romanzo, richiamata dall’autrice anche nella prefazione con alcuni versi stralciati dal brano “Alfredo”. Traccia scolpita nell’album Amen del gruppo musicale Baustelle.
Una tragedia, quella di Vermicino, rimasta indelebile nell’animo non solo della scrittrice, ma nella totalità degli Italiani. Uno spartiacque ancor più duro poiché sancì l’esordio della diretta dal vivo di un’assurda agonia intima e privata. Prototipo di quella tivù del dolore, distribuita attraverso la televisione nelle case e in tutte le famiglie del Paese.
All’unisono la famiglia Imparato vive la sofferenza della diretta no stop dal luogo del maledetto pozzo artesiano, sommando le loro ultime pene coincidenti con l’epilogo funesto del piccolo Alfredino.
Una casa, già segnata da un’angosciante emarginazione nell’ubicazione posta nel cimitero di Poggioreale. Cristoforo l’ha ottenuta in comodato d’uso, evitando magari la deportazione alle vele di Scampia, riparando la perdita del suo lavoro originario in tipografia, come custode al camposanto. Il suo occhio vitreo che nell’infanzia ha penalizzato la sua presenza parca di onesto lavoratore, non gli aveva compromesso, prima la corte, poi il matrimonio con Luisa.
Anche lei dedita al lavoro precoce, prima da commessa in un negozio, poi da moglie e madre, consumata dalle privazioni materiali. Sempre crescenti per non poter cullare nuove prospettive di benessere. I suoi lavori domestici si aggiungevano all’impegno quotidiano di badante presso la casa di Erminio. Un anziano signore animato dalla nostalgia di una vita al crepuscolo e dalle scosse del Parkinson incipiente. Le giornate uguali di Luisa non prevedevano svaghi. Se non i pochi necessari momenti d’igiene intima rallegrati dal canto dell’inseparabile canarino. Il rapporto simbiotico col cardillo nella caiola evoca la figura di Nino, giovane comprimario nella scena di affetti e mancanze, turbamenti e trasgressioni nascoste.
Non secondario, tutt’altro, il profilo di Rosaria, coetanea e compagna di classe di Rita.
Acerba “ninfa plebea”, cacciata dalla sua famiglia per una gravidanza indesiderata (da padre incerto), trova asilo in casa Imparato nel tempo necessario per assorbire le diverse attenzioni. Indicibili, sopite o segrete nel nome di ricorrenti coperture e riparazioni. Necessarie a reggere quel possibile reale rispetto alla celata realtà. La scomposta posa di Rosaria, incontinente nelle sue pulsioni affettive fuori controllo, costituirà pietra d’inciampo per la quasi totalità dei suoi interlocutori. Collocandola come prima vittima perdente, condannata a un’immaginaria gogna e meritevole di dura pena espiatoria.
In questo splendido affresco di umanità ridotta le sette opere di misericordia corporale emergeranno nitide. Con visioni esterne al principale focolare domestico che alludono a luoghi simbolo d’impressionante attualità. Lo storico “Albergo dei poveri”, ricovero di barboni e poveracci o lo stesso ospizio che accoglierà Erminio nell’imminenza del trapasso.
Nel coro caravaggesco d’umana pietas affiora anche il dolce di un neo stilnovo incarnato nella didattica della vulgata. Non è una nota stonata Lorenzo Guerrini, giovane rampollo di una famiglia dell’alta borghesia pisana, catapultatosi, suo malgrado, nella musa partenopea.
La sua breve esperienza come professore di storia dell’arte (assegnato alla classe di Rita e Rosaria), apparentemente paradossale come un ”asino miez e suon”, sarà l’altra medaglia di una sconfitta predestinata. Il rialzarsi veloce dopo l’inevitabile caduta.
Misericordia e redenzione troveranno proiezioni sbilenche, forse risolutive.
Nelle traiettorie storte di sguardi offesi e parole non dette.
La scrittura dell’autrice, una tavolozza dai colori intonati e forti, compone una prosa alta e unica.
Un’incontro felice fra semiologia e semantica con l’uso di termini pregiati non elitari. L’innesto adeguato di ricorrenti espressioni dialettali produce una risonanza verace non manieristica.
Riluttante a pianificazioni e stilemi linguistici, la “lingua madre” di Piera Ventre, come lei stessa conferma, sente importanti influssi di Annamaria Ortese, della stessa Elsa Morante, autrici di riferimento nella sua formazione.
Questo romanzo che traspira Napoli nella sua essenza piena, difficilmente potrà allontanare il lettore da ambientazioni indagate da grandi caposcuola del Novecento, non solo napoletani. Matilde Serao o Raffaele La Capria non ci paiono accostamenti irriverenti. Non è casuale la proposta di Cesare De Seta, d’includere il libro nella lista dei cinquantaquattro titoli degli Amici della Domenica, in lizza per l’edizione 2020 del Premio Strega, pubblicata nei primi giorni di marzo
Così le stesse voci di dentro di Edoardo. Affinità letterarie vicine alla prosa di Pirandello e Manzoni. Chiavi d’interpretazioni per campioni propedeutici, lo auspichiamo, per una letteratura Ventriana, magari (non ce ne voglia l’autrice) ”Ventresca”. Senza alcuna allusione, ovviamente (se non per il gusto prelibato) alla versione culinaria del termine, fra l’altro, molto apprezzata in Toscana.
Buona lettura.