“Nei processi dei minori, la vittima non può costituirsi parte civile. Non vi è risarcimento e la vittima non ha diritto ad assistere al dibattimento in aula”.
La citazione estrapolata da un passaggio nel racconto dell’autrice, coglie un aspetto rilevante del fenomeno trattato in uno straordinario memoriale.
Il coraggio delle cicatrici è il saggio edito da UTET, scritto da Maria Luisa Iavarone con il giornalista Nello Trocchia, pubblicato nella scorsa estate piegata dalla pandemia da coronavirus.
“Questo libro racconta una brutta storia: l’accoltellamento di mio figlio Arturo, lasciato quasi senza vita da quattro ragazzini un pomeriggio di dicembre sotto le luminarie del Natale.”
E’ Maria Luisa Iavarone la voce narrante di questa testimonianza lucida e struggente che sin dalla seconda di copertina traccia i tratti di un fenomeno vasto e violento.
Relegato in una sorta d’inevitabile roulette russa con le sue vittime predestinate.
Inerti, utili a riempire cronache di sdegno omologato e chiese adorne di gonfaloni listati a lutto con voli di palloncini colorati al passaggio delle bare, spesso bianche, fra i muri di folle umide di lacrime.
Se poi il colpo inferto non procura il saluto estremo e lascia su questa terra il fortunato malcapitato, un sollievo potrà accompagnare la vittima e i suoi familiari.
Destinati a patire la violenza subita, l’integrità psicofisica violata, medicandola con panni lavati rigorosamente in famiglia.
Quando l’ennesimo episodio di ordinaria ferocia urbana consumato da una baby gang lascia in terra un ragazzino diciassettenne in una pozza di sangue in un’affollata serata napoletana nei giorni prenatalizi, colpisce “bersagli sbagliati” (per usare un eufemismo), qualcosa cambia.
“Questo libro prova a ricucire i lembi di una ferita che solo nei fatti ha un luogo e una data, il 18 dicembre 2017 in via Foria, ma che esiste da molto più tempo e si allarga di giorno in giorno nell’indifferenza e nell’ipocrisia degli adulti che preferiscono non guardare, disinteressandosi dei propri figli oppure coinvolgendoli nelle loro vite già criminali.”
Le parole scritte da Maria Luisa Iavarone, madre di Arturo Puoti, ci conducono nelle strade della nostra vita quotidiana. Vie che percorriamo ogni giorno non solo nelle grandi metropoli italiane. Ignorando incroci pericolosi o casuali, capaci di segnare per sempre il destino di una o più famiglie.
I passi compiuti dall’autrice sono piccoli ma enormi, considerato i terreni che calpestano. Sentieri o campi minati, non solo dal pericolo fisico.
Mentre scrivo queste riflessioni, ripenso al giovane ambasciatore Luca Attanasio barbaramente ucciso insieme al suo carabiniere di scorta e all’autista in circostanze inaccettabili durante la sua missione nel cuore dell’Africa depredata dall’odio inumano.
Le associazioni d’idee o di visioni possono essere fuori luogo ma non evocano eroismi da ricordare con medaglie di parole o celebrazioni di retorica.
Le testimonianze che troveremo in questo libro ci mostrano una prospettiva diversa dove tutti noi possiamo guardare senza pregiudizi.
Anche se la paura e la fragilità sono stigma umano, l’inizio di un progetto diverso e unanime è segnato per inciso nella seconda pagina che precede l’introduzione:
“Perché il dolore ha le sue ragioni e quasi sempre sono legate all’amore.”
L’amore per la vita è comunque la ragione essenziale di questo libro e del progetto che ne ha dato seguito. Nato proprio da un episodio di violenza, contiguo alla morte.
“Lì dove c’è il pericolo cresce ciò che salva.” La citazione di Friedrich Holderlin ci ricorda il senso della nostra responsabilità quotidiana.
Se in questa vicenda e in tante quotidiane che devastano il nostro senso civile di comunità, emergono assenze e vuoti incolmabili, le presenze dei due autori, impegnati nelle rispettive professioni, ribaltano una realtà surreale.
“Il coraggio di trasformare una storia personale in una grande occasione collettiva.”
Lascio ancora spazio alle risposte che l’autrice, professoressa Marisa Iavarone mi concede telefonicamente all’indomani della sua ultima conferenza in un’agenda quotidiana fitta di lavoro e nuovi progetti.
Cos’è l’associazione ARTUR e perché nasce?
“ARTUR nasce da una triste vicenda, che con determinazione e impegno ha avuto un’altra narrazione. Proprio come nella “prospettiva invertita” in pittura quando il punto di fuga non è più collocato sullo sfondo dell’immagine, ma, all’opposto, è situato davanti all’oggetto rappresentato…il punto di fuga diviene lo sguardo dell’osservatore ed è questo a cambiare il punto di vista sulla realtà.”
Oggi, a distanza di tre anni da quei fatti, cosa le è rimasto di questa drammatica vicenda?
“La storia che mi è toccata in sorte racconta il ribaltamento di una prospettiva che ho tentato caparbiamente, disperatamente di fare nel tentativo di salvare la vita di mio figlio. L’aggressione di mio figlio è stata una discesa agli inferi, un abisso nel quale Arturo era precipitato e dal quale l’ho aiutato a risalire. Non potrò mai dimenticare i suoi occhi quando lo raccolsi dal sangue, quello sguardo fermo come un lago che mi chiedeva il senso di tutto quell’orrore lasciato sul suo corpo e nella sua anima. Ho realizzato che il modo in cui avrei reagito sarebbe stato cruciale per la sua ripresa. Non potevo permettermi di mostrare a lui la mia immagine arresa, sconfitta, depressa. Sarebbe stato come se lo avessi accoltellato anch’io.”.
Come ha pensato di contrastare l’omertà della gente?
“Ho capito che bisognava alzare l’asticella dell’indignazione, costringendo istituzioni e cittadini a non voltarsi dall’altra parte.
Ho provato a coinvolgere il maggior numero possibile di persone, fissandole dritto negli occhi o attraverso schermi televisivi, scrivendo ai giornali, parlando ostinatamente nelle scuole, visitando territori e coscienze.
Questa storia doveva avere non solo il contorno del brutto dramma privato ma soprattutto un fronte di scontro all’indifferenza, all’omertà, al disimpegno civile cui siamo purtroppo sempre più tristemente assuefatti e abituati.”.
La vicenda di Arturo costituisce solo la punta dell’iceberg di una città che è tornata a sanguinare per ferite mai curate: povertà educative, dispersione scolastica, diseguaglianze, rabbia sociale, rancore.
“Oggi purtroppo, con la pandemia, queste ferite sono ancora più sanguinanti e temo che più passi il tempo più aumenterà la pressione sociale e la povertà materiale.”
Perché ha voluto consegnare la vicenda di Arturo alla storia civile della città?
“Per dire che quando si subisce un’assurda, insopportabile ingiustizia non bisogna tacere, ma offrire un esempio di civiltà e dignità, bisogna dare coraggio a chi non ne ha, offrendosi da esempio. La mia città aveva anche bisogno di una nuova narrazione della violenza e del rischio perchè quando si parla di minori, vittime e carnefici, spesso si confondono.”.
L’associazione ARTUR si fonda sul principio che dietro ogni minore che delinque ci sono sempre adulti irresponsabili, che cosa intende con precisione?
“Che non solo nelle famiglie devianti ma in tutta la comunità c’è un deficit di responsabilità che spesso si limita a essere spettatrice inerme di quanto accade. Spesso la violenza dell’indifferenza è peggiore della violenza delle armi e delle botte. E questo lo vediamo in molte forme di violenza: da quelle sui minori fino ai femminicidi che sono purtroppo in drammatica ascesa durante il lockdown”.
In un’intervista lei dichiara di non amare la definizione di “donna coraggio”, ci può spiegare il perchè?
“Non mi piace pensare che per cambiare la realtà ci sia bisogno di “persone coraggiose”. Questa idea implica un atto di delega, come se ci si debba sempre aspettare da una specie di super-eroe la soluzione dei nostri problemi. Io credo che il coraggio non sia necessariamente delle persone straordinarie ma delle persone normali che si fanno interpreti di azioni coraggiose.
Io mi ritengo una donna normale che per difendere il proprio figlio ha intrapreso un percorso coraggioso, ma per un motivo così importante chi non lo avrebbe fatto?”.