“Se in una casa si aprono tutte le finestre si creano correnti d’aria.”
La constatazione di per sé banale, è una visione luminosa. Che cela, non più di tanto, una chiave d’interpretazione per una lettura diversa e intrigante.
L’ultimo romanzo di Piera Ventre, “Le stanze del tempo”, uscito nelle librerie italiane lo scorso venticinque novembre, per i tipi di Neri Pozza, rappresenta uno spartiacque nella narrativa della scrittrice napoletana. Toscana d’adozione.
Un romanzo affastellato di racconti diversi. Privi d’identificazioni geografiche o temporali riuniti dalla protagonista principale che non s’incarna in una persona, bensì in una casa.
Ovvero una serie di case. Visitate, vissute, descritte con la voce parlante in prima persona della narratrice. Impegnata in un coinvolgente diario in itinere nei luoghi e nelle memorie della propria vita.
Affiorati nelle stanze, negli spazi e meandri, visibili o nascosti di queste abitazioni.
“Le stanze del tempo”, romanzo che contempla generi diversi, secondo letture proprie di ogni sensibilità. Non giova definirlo: memory, o auto fiction. Il lettore sarà autonomo e libero di immedesimarsi in quegli spaccati, nell’interpretarne l’essenza.
La serie di episodi si snoda in un viaggio non datato in una sorta di giochi di specchi.
Matriosche di sopraluoghi e svelamenti dagli esiti incerti, non privi di smarrimenti o inquietudini.
La Ventre, pur non distanziandosi dall’identità stilistica formativa, si affranca da quella napoletanità che potrebbe apparire scontata quanto fuorviante.
Se in PalazzoKimbo lo sguardo solitario di Stella traspira tracce importanti del proprio vissuto, Le stanze del tempo non vestono abiti e colori di luoghi univoci.
La stessa autrice nella nostra conversazione all’epoca del suo esordio (http://www.networknews24.it/2017/05/22/ventre-napoli-nelle-mura-palazzokimbo/)
esprimeva un focus emergente della sua prosa: “Credo, però, che ogni luogo abbia la capacità di plasmare il nostro sguardo sul mondo in maniera esclusiva. Ed è questo che porto con me di Napoli: il modo che la città mi ha insegnato a guardarmi attorno. Non saprei dirlo diversamente.”
La Napoli pregnante nelle Sette opere di misericordia (candidato all’ultimo Premio Strega, vincitore del Premio Procida – Isola di Arturo-Elsa Morante https://www.laltraribalta.it/2020/04/18/dal-ventre-di-napoli-la-napoli-di-piera-ventre/), è solo un tenue ricordo nel primo episodio. Dove la prima casa metropolitana evoca l’infanzia inconsapevole dei giochi innocenti di bambina.
Le case visitate dalla voce narrante si ammantano di cose, persone, animali. Ogni elemento concorre a una scena di vita reale. Consumata con visioni, talvolta surreali potenzialmente possibili in qualsiasi luogo o perduto paese. Rurale o marino della sana o datata provincia italiana.
Gli abitanti delle case rimestano vincoli o amori di sangue non sempre scontati: i nonni, gli zii e i cugini, ritrovati nelle case di villeggiatura. Una sorella fin troppo audace con un vicino dirimpettaio intrigante quanto inaffidabile nel rapporto di coppia.
Conoscenze frugali o durature, coinquiline o compaesani, riservano esperienze impreviste, talvolta stupefacenti rispetto alle aspettative immaginate.
Non mancano gli oggetti madidi di emozioni: intonaci, cassapanche e “mobilie”, giardini claustrali o “tignole ghiotte di farina”. La fauna e gli esseri viventi: insetti e gatti, rettili e altri quadrupedi completano ambientazioni dagli umori adeguati alle scene.
Narrate con la lingua densa di semplice bellezza alla quale ci ha abituato l’autrice.
Scevra da orpelli e manierismi, pulita e pragmatica. Elogio di quell’italiano da gustare: popolare e colto in una esclusiva armonia.
Un passaggio austero e lieve dalla Narrativa alla Letteratura.
Che accompagna casualmente in adeguata sintonia il nostro transito temporale al nuovo anno, a nuove stanze, a nuove letture.
Auguri !